Luca Donini: sassofonista, compositore e direttore. Quale di queste tre figure è preponderante nella tua vita musicale?
Sono tre figure che mi appartengono in uguale misura, non esiste l’una senza l’altra. Quando suono, sono per il pubblico solo un saxofonista, in realtà dietro c’è anche un lavoro di composizione estemporanea e dei brani che scrivo continuamente, inoltre, anche se agli ascoltatori non traspare, dirigo me stesso e l’interplay tra i musicisti che suonano con me.
Al contrario quando sono davanti all’orchestra, risulta facile etichettarmi come direttore, ma molti dei brani in scaletta sono scritti o rielaborati da me.
Quando hai capito che la musica sarebbe stata la tua vita?
Credo che tutti nascano con una predisposizione, ci sono persone che nascono con una predisposizione già ben evidente… forse sono uno di questi.
Consapevolmente ho deciso che volevo fare il musicista da bambino, anche se avevo tutti contro…”va bene se suoni, ma di mestiere cosa farai?”
Mio zio mi faceva sempre ascoltare i suoi vecchi vinili delle grandi orchestre americane, con i grandi del jazz come di Benny Goodman, Count Basie,… e quando ero piccolino, durante le feste, passavano per le piazze dei paesini in provincia di Verona le bande popolari e io mi fermavo sempre incantato ad ascoltare la musica e a guardare i musicisti.Questo mi ha fatto desiderare di voler suonare uno strumento a tutti i costi.
Nel 2008 col tuo quartetto avete affrontato una tournée negli Stati Uniti. Sei tornato con più…?
Suonare negli Stati Uniti è stata un’esperienza indimenticabile. Eravamo gli unici italiani a partecipare ai Festivals Jazz made in USA in Iowa, e questo ci ha dato una forte responsabilità e carica. Siamo tornati con un bel bagaglio di esperienza. Personalmente ho portato a casa l’entusiasmo del pubblico e la gratitudine reciproca. Suonare anche con i jazzisti americani, in città dove il jazz è nato e si respira nell’aria, è una lezione che non ha prezzo.
Com’è suonare al Barone Rosso? Meglio teatro, club o concerti in alta quota?
Sono luoghi e situazioni troppo diverse per dire quale è meglio. Tutte sono “meglio”. Sei coinvolto emotivamente in maniera diversa. Perché in ogni luogo affronti un pubblico diverso, con esigenze diverse, anche sotto il profilo tecnico. E’ un mettersi sempre alla prova.
Il Barone Rosso è uno di quei locali che ti rimangono dentro, è sempre bello ritornare a suonarci, per l’accoglienza,l’amore per la musica che dimostrano i gestori, il pubblico di amanti del jazz e della buona musica,la disponibilità,l’entusiasmo e la voglia di fare, cosa che non è mai scontata..
Penso di parlare a nome di tutti i musicisti quando dico che ciò che fa un bel concerto è un lavoro di squadra composta dai musicisti, ma anche dagli organizzatori e da chi decide di mettersi in gioco affrontando tutte le difficoltà che oggi comporta creare un evento musicale.
Quale musicista ha più influenzato la tua musica?
Johann Sebastian Bach, Sonny Rollins, John Coltrane, Joe Henderson, l’ultimo Davis, Michael Brecker .
Progetti per il futuro?
Oltre ai vari concerti in programmazione, ho già pronto in cantiere una serie di nuovi progetti. Ci sono voluti un paio d’anni per creare quello che avevo in testa. Ho dovuto studiare, confrontarmi con altre realtà musicali, sperimentare, e fare un lavoro di introspezione.
E’ stato bello, un viaggio interiore alla scoperta di nuove possibilità artistiche.
Devo lasciare ancora un po’ di mistero, perché sto concludendo il percorso intrapreso, ma presto potrò condividere con tutti voi la mia esperienza.